L’affido condiviso, cos’è e come funziona

L’affido condiviso, cos’è e come funziona

AFFIDO CONDIVISO, COS’E’ E COME FUNZIONA

a cura dell’Avv. Giampaolo Pisano del Foro di Cagliari, Presidente dell’Associazione Mamme Papà Separati Sardegna

Mi è capitato spesso di ricevere in studio dei genitori separati che chiedevano di avere l’affido condiviso dei figli minori, così da tenere i figli pari tempo con l’altro genitore e,  conseguentemente, non versare alcun assegno di mantenimento.
Detta domanda è errata in quanto frutto di una cattiva interpretazione della legge sull’affido dei figli.

È quindi opportuno chiarire cos’è e come funziona l’affido dei minori nel nostro ordinamento.

Premesso che l’istituto dell’affido non riguarda i figli maggiorenni, è importante ricordare che è preciso dovere dei genitori prendere le decisioni sull’educazione, sulle cure, sulla scuola, indirizzo religioso, e su tutte le questioni rilevanti della vita dei minori.

Quindi, l’affido condiviso è la capacità di assumere in condivisione fra i genitori tutte le decisioni inerenti la crescita e lo sviluppo del figlio minore fino a quando quest’ultimo non avrà computo 18 anni.
Fino a quell’età entrambi i genitori sono chiamati a decidere congiuntamente, cioè insieme, tutte le decisioni inerenti la vita del minore, quali, l’indirizzo scolastico, quello religioso, ecc.

A nessun genitore è dato il diritto di assumere decisioni importanti senza il consenso dell’altro genitore.
È chiaro che il disposto normativo presuppone che vi sia un corretto e rispettoso dialogo fra i genitori separati. Per assumere le importanti decisioni sulla vita dei figli, deve esserci un confronto costruttivo fra genitori.
Purtroppo, questo non sempre accade. Spesso i genitori che si separano sono animati da sentimenti negativi, desideri di vendetta o riscatto e, soprattutto, non dialogano fra loro. In questo contesto è difficile, se non impossibile, condividere le scelte educative dei figli. Anzi, non di rado ho visto delle decisioni assunte da un genitore senza alcun rispetto per i figli ma prese unicamente per fare un dispetto all’altro genitore. Non c’è bisogno di aggiungere che detta condotta è censurabile sotto tutti i profili.
Nella crescita ed educazione di un minore è fondamentale anche la coabitazione, perché l’interno delle mura domestiche rappresenta il primo e più importante esempio educativo per un figlio. Quest’ultimo assorbe e riporta l’esempio ricevuto in casa. Quindi, nel caso di famiglia unita, il minore seguirà il duplice esempio del padre e della madre, mentre nel caso di genitori separati e non collaborativi il piccolo avrà il prevalente esempio del solo genitore convivente.
A tal proposito, deve evidenziarsi che benchè la riforma normativa abbia introdotto la regola generale dell’affido condiviso, i casi di affido esclusivo sono rari, la legge nulla dice sul luogo in cui il minore dovrà vivere materialmente.
Preso atto di questa lacuna, la giurisprudenza ha creato la figura del genitore collocatario, ossia del genitore presso il quale il minore dovrà risiedere in modo prevalente e presso il quale avrà la residenza anagrafica.
Il giudice, quindi, è chiamato a decidere presso quale genitore il minore dovrà soggiornare in via prevalente.
Pertanto, riportandoci alla premessa iniziale, bisogna ricordare che affidamento condiviso non significa necessariamente tenere i figli al 50% per ciascun genitore. Anzi, nella maggior parte dei casi ciò non avviene, il minore sarà collocato, ossia risiederà, in via permanente presso un genitore, lasciando all’altro il diritto di fargli visita secondo le regole che verranno disposte dal giudice.
Si è accennato al fatto che solo di rado il giudice dispone l’affido esclusivo in quanto vige la regola generale dell’affido condiviso. Tuttavia, se il giudice ravvede determinate condizioni lesive per l’interesse del minore, egli potrà affidare i figli minori ad un solo genitore.

Ad esempio, se un genitore vive lontano dal figlio e lo vede raramente, se ha trascurato i propri doveri educativi e di mantenimento verso il figlio, se si è disinteressato del figlio, omettendo di frequentarlo, se si è reso responsabile di condizionamenti negativi sul figlio nei confronti dell’altro genitore, se impedisce all’altro di svolgere i propri compiti genitoriali, se impedisce il rapporto tra il figlio e l’altro genitore.
Ovviamente in questo caso, il giudice deve motivare le ragioni in base alle quali ha disposto l’affidamento esclusivo.

Detta decisione comporta che il genitore escluso dall’affido non avrà alcun potere decisorio sulle scelte del figlio che verranno assunte dal solo genitore affidatario.
Tuttavia, il genitore escluso dall’affido è comunque obbligato all’osservanza dei doveri verso il figlio.
Egli dovrà ugualmente provvedere al mantenimento dei figli e dovrà vigilare sulle scelte dell’altro genitore.
Il genitore che intendesse chiedere l’affido esclusivo dovrà rivolgersi al giudice mediante l’assistenza di un avvocato competente in materia.
Il compito di quest’ultimo è fondamentale in quanto, l’avvocato deve valutare se sussistono le condizioni per la domanda e sconsigliare detta richiesta se questa è contraria all’interesse del minore.

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La prova sull’addebito della separazione

La prova sull’addebito della separazione

LA PROVA SULL’ADDEBITO DELLA SEPARAZIONE

a cura dell’Avv. Giampaolo Pisano del Foro di Cagliari, Presidente dell’Associazione Mamme Papà Separati Sardegna

Sempre più spesso si rivolgono al mio studio dei coniugi in procinto di chiedere la separazione dal proprio coniuge e, puntualmente, mi chiedono che la stessa venga addebitata all’altro coniuge.

Poichè anche alcuni clienti in fase di divorzio formulano la medesima istanza, è bene chiarire che è possibile chiedere l’addebito solamente nel procedimento di separazione e non anche nella fase di divorzio.

Ciò chiarito, è importante vedere quali sono i presupposti istruttori affinchè venga addebitata la separazione ad un coniuge.
Per una corretta disamina del problema relativo ai mezzi istruttori del processo, è bene prendere le mosse dall’art. 2697 c.c. in virtù del quale chiunque voglia far valere un diritto in giudizio deve dare la prova dei fatti che costituiscono il fondamento dei propri assunti.

Il conseguente e necessario corollario processuale è l’art. 115 c.p.c., in base al quale, il Giudice deve fondare la propria decisione sulle prove proposte dalle parti processuali e/o acquisite anche d’ufficio dal Giudice, i fatti non contestati e le nozioni di fatto rientranti nella comune esperienza.

L’altra norma di riferimento è data dal successivo art. 116 c.p.c. che demanda al Giudice la valutazione delle prove, da farsi secondo il prudente apprezzamento del magistrato, salvo che la legge disponga altrimenti.
Il potere discrezionale del giudice è limitato dalla norma sulle c.d. prove legali, che riducono appunto la discrezionalità del Giudice, tra cui si annoverano l’atto pubblico e la scrittura privata autenticata, riconosciuta e verificata, il telegramma, la confessione e il giuramento, nonchè il documento informatico siglato con firma elettronica qualificata o digitale.

Allo stesso modo, anche le presunzioni semplici previste dall’art. 2729 c.c. rappresentano un limite al libero convincimento o alla discrezioalità del Giudice.
Riportando l’attenzione sull’addebito della separazione, sarà il giudice che, valutate le prove offerte dalle parti processuali, e qualora ricorrano le circostanze, potrà decidere a quale dei coniugi sia addebitabile la separazione, in conseguenza del comportamento contrario ai doveri derivanti dal matrimonio.
Il primo presupposto affinchè il giudice si pronunci sull’addebito è che il coniuge ne faccia richiesta e che riesca a dimostrare nel processo che la condotta contraria ai doveri coniugali dell’altro coniuge sia stata la causa determinante della fine del rapporto coniugale.
Sostanzialmente, il Giudice dovrà valutare se il comportamento del presunto coniuge colpevole sia la causa determinante della frattura del rapporto o se invece abbia soltanto aggravato o reso definitiva la crisi coniugale già in essere.

Sul coniuge che richiede la declaratoria di addebito della separazione grava il dovere non soltanto di provare i comportamenti dell’altro coniuge posti in essere in violazione dei doveri coniugali, ma anche il dovere di provare il nesso di causalità fra detti comportamenti e l’intollerabilità della convivenza.
È di tutta evidenza che nel caso di separazione generalmente gli unici testimoni delle violazioni ai doveri coniugali sono gli stessi coniugi o, al massimo i prossimi parenti o amici degli stessi. Conseguentemente, le loro dichiarazioni potranno essere parziali o de relato, con le evidenti conseguente sulla loro efficacia probatoria. Il Giudice quindi dovrà valutare anche sulla base di ulteriori elementi acquisiti nel corso dell’istruttoria.

Per queste ragioni, in ambito istruttorio parte della giurisprudenza accoglie di buon grado le prove atipiche e le prove indiziarie e indirette, tenuto conto appunto che spesso i fatti oggetto di causa avvengono per lo più in ambito domestico o nella dimensione privata dei soggetti coinvolti.

Ad esempio, in tema di violazione dell’obbligo di fedeltà, oltre alla prova testimoniale, una delle prove utilizzata da colui che richieda l’addebito è la relazione investigativa con cui si documenta il tradimento.

A tal proposito è opportuno ricordare che la relazione dell’investigatore è pur sempre uno scritto proveniente da un terzo, l’investigatore, pertanto costituisce una prova atipica e potrà essere validamente utilizzate in sede decisionale dal Giudice solo se l’investigatore sarà stato sentito nel corso del giudizio in qualità di teste e riferisca fatti precisi e circostanziati appresi mediante diretta percezione.

Diversamente, il Giudice potrebbe ritenere che la documentazione investigativa sia priva di valida efficacia probatoria e pertanto irrilevante.
Nei processi di cui trattasi, non di rado le parti producono anche registrazioni audiovisive, fotografiche e fonografiche.
Questi documenti fanno piena prova ai sensi dell’art. 2712 c.c. salvo non siano disconosciute da colui contro il quale sono prodotte.

Un’altra problematica sempre più frequente nelle aule giudiziarie è quella relativa alla valutazione ed ammissibilità dei mezzi di prova provenienti dai social.
Sul punto si ritiene che le informazioni e le fotografie pubblicate sul proprio profilo non siano segrete. Al contrario, restano tutelate dal segreto quelle informazioni contenute nei messaggi scambiati utilizzando il servizio di messaggistica (o di chat) fornito dal social network.

Bisogna infatti fare un distinguo. Queste ultime, possono assimilarsi alla corrispondenza privata, e come tali sono tutelate sotto il profilo della loro divulgazione. Al contrario, quelle pubblicate sul proprio profilo personale, in quanto già destinate ad essere conosciute da soggetti terzi, anche se rientranti nell’ambito della cerchia delle c.d. “amicizie” del social network, non hanno la stessa protezione perché considerate informazioni conoscibili da terzi.
In buona sostanza, chi pubblica informazioni o foto sul proprio profilo personale accetta il rischio che le stesse possano essere portate a conoscenza di terze persone non rientranti nell’ambito delle c.d. “amicizie”.
Tuttavia, non può negarsi che talvolta l’acquisizione dei dati personali dell’altro coniuge avviene mediante la commissione di uno o più reati. In questo caso dovrà valutarsi l’ammissibilità di quel mezzo di prova.

Purtroppo, a tal proposito la giurisprudenza non è univoca in quanto, al contrario del codice penale, il codice civile non disciplina detta materia.
Uno dei casi maggiormente diffuso è l’interferenza illecita nella vita privata volto a registrare immagini o suoni indebitamente nei luoghi di privata dimora.
A tal riguardo si ricorda che è sempre consentita la registrazione di una conversazione (sia essa telefonica o ambientale) da parte di uno dei partecipanti alla conversazione stessa. Al contrario, se la conversazione telefonica avviene tra soggetti terzi, e venga “intercettata” abusivamente, si configurano rispettivamente i reati di cognizione illecita di comunicazioni telefoniche e di installazione di apparecchiature atte ad intercettare comunicazioni telefoniche, di cui agli  artt. 617  e  617-bis c.p.

Altra condotta penalmente rilevante, anch’essa spesso utilizzata nell’ambito dei procedimenti di separazione è quella dell’accesso abusivo ad un sistema informatico protetto da misure di sicurezza.

Quelle appena elencate sono le ipotesi di reato maggiormente rilevate nell’ambito del contenzioso tra coniugi.
Infatti, tutta la corrispondenza, sia cartacea che telematica, sono spesso nella disponibilità dell’altro coniuge e, in pendenza di separazione, può rappresentare un utile mezzo di prova, sia ai fini della domanda di addebito sia ai fini delle domande di natura economica.

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Lo Stalking Giudiziario

Lo Stalking Giudiziario

Lo stalking giudiziario è un reato previsto e punito dall’art. 612 bis del Codice Penale.

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita

Nello stalking giudiziario avviene un ribaltamento dei ruoli, in quanto il carnefice si traveste da vittima e trascina in tribunale la vera parte lesa. In genere avviene quando il coniuge non accetta la separazione o il divorzio, soprattutto se avvengono in seguito a violenze domestiche. Spesso il tutto viene accompagnato con la minaccia di togliere i figli alla controparte.

E’ un vero e proprio stalking nello  stalking e si verifica quando l’ex coniuge, ferito dal trauma di una separazione conclusa male, continua a perseguitare il coniuge o il  compagno/a, non solo con minacce, insulti e aggressioni, ma pensa di potersi affidare ad una giustizia, che in realtà è la “sua giustizia”, che ritiene a suo favore, con continue denunce.
Ciò avviene soprattutto quando si è in presenza di figli che si cerca in tutti i modi di sottrarre, all’ex moglie o all’ex compagna e viceversa, inventando di sana pianta qualsiasi tipo di stratagemma per supportare la tesi delle continue denunce.

Al primo insorgere di queste problematiche consigliamo di rivolgersi immediatamente al nostro Studio www.studiomasile.it al fine di porre in essere tutte quelle attività per acquisire gli elementi di prova per la salvaguardia della propria vita privata e dei propri congiunti.

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L’investigatore privato può far annullare l’assegno di mantenimento?

L’investigatore privato può far annullare l’assegno di mantenimento?

“Il tribunale … dispone l’obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell’altro un assegno quando quest’ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”

 

Tale diritto sussiste fintantoché il beneficiario non passi a nuove nozze oppure venga dimostrata la convivenza con un altro coniuge.

In questo caso lo Studio Masile Investigazioni si occupa dell’acquisizione degli elementi di prova al fine di dimostrare la reale convivenza. In una recente sentenza della Corte d’Appello di Cagliari è stata depositata nell’interesse del reclamante la relazione investigativa redatta dallo Studio di consulenza di Investigazioni Private del dott. Brunello Masile attestante la convivenza stabile tra due coniugi; tale relazione non è mai stata contestata, neppure genericamente, dall’odierna appellante

= PER QUESTI MOTIVI =

La Corte di Appello di Cagliari, definitivamente pronunciando sull’appello avverso la sentenza del Tribunale di Cagliari, rigetta l’appello e condanna l’appellante alle spese di giudizio.

Differenze con l’assegno di mantenimento nella separazione

L’assegno divorzile ha una disciplina diversa rispetto all’assegno di mantenimento in sede di separazione giudiziale. La differenza tuttavia non è soltanto terminologica, ma sostanziale.
I presupposti dell’assegno di mantenimento sono quelli legati all’esistenza del vincolo coniugale non ancora cessato, e quindi alla sussistenza di un vincolo di coniugio, con il divorzio, la situazione cambia.
I coniugi infatti sono sono più tali, e ciò ha rilievo soprattutto in riferimento a quel criterio di “tenore di vita” quasi mai messo in discussione per l’assegno di  mantenimento in sede di separazione, mentre è oggetto di vivace dibattito nell’ambito dei criteri di quantificazione dell’assegno divorzile.

I presupposti dell’assegno divorzile

Il riconoscimento e la quantificazione dell’assegno divorzile, devono oggi essere valutati sulla base dei seguenti fattori:
1) Le rispettive condizioni economiche e patrimoniali;
2) Il tenore di vita avuto in costanza di matrimonio. Tale elemento, prima rientra oggi a pieno titolo quale elemento per la quantificazione dell’assegno;
3) Il contributo effettivo che il coniuge richiedente ha dato alla vita patrimoniale, l’eventuale e conseguente sacrificio “delle aspettative professionali e reddituali del coniuge richiedente”;
4) La durata del rapporto matrimoniale;
5) Le potenzialità professionali e reddituali al termine della vita di matrimonio, anche in considerazione dell’età di chi richiede l’assegno e più in generale del mercato del lavoro. Questo criterio deve poi essere calato nel contesto sociale all’interno del quale i coniugi vivono ed hanno vissuto.

In relazione al punto (1)
Per l’individuazione dei predetti fattori, la Cassazione cita in particolare l’articolo 3 della Costituzione in riferimento all’effettività del principio di uguaglianza.

Come precisato dalla Cassazione, il principio di uguaglianza sostanziale si declina anche nei suoi aspetti legati alla vita familiare e matrimoniale, come del resto recita l’articolo 29 della nostra Carta Costituzionale.

La perdita del diritto a percepire l’assegno divorzile

Il diritto a percepire l’assegno divorzile cessa quando il coniuge che lo percepisce passa a nuove nozze.

La giurisprudenza più recente in tema di perdita del diritto dell’assegno divorzile, chiarisce come anche in caso di convivenza con il nuovo partner tale diritto venga meno. La convivenza deve tuttavia essere stabile e non temporanea: è sufficiente la prova in ordine ad un periodo di convivenza stabile protrattasi per un arco di tempo rilevante successivo al divorzio, da qui la necessità delle indagini investigative.

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Separazione: addebito per infedeltà

Separazione: addebito per infedeltà

Uno dei principali motivi per cui un matrimonio può naufragare sembrerebbe essere l’infedeltà coniugale.

Anche se, come più volte chiarito dalla stessa Corte di Cassazione, spesso è proprio la crisi di coppia a determinare una successiva infedeltà.

Talvolta sono le incomprensioni o le incompatibilità di carattere che possono spingere a cercare fuori dalle mura domestiche un rapporto sentimentale appagante. Ma a volte il tradimento può essere scatenato semplicemente dalla stanchezza e dalla noia che subentrano all’interno di un rapporto di coppia che non si è stati in grado di mantenere vivo e interessante.

In linea teorica il coniuge tradito, in sede di separazione, può chiedere l’addebito della separazione a chi ha violato l’obbligo di fedeltà. Ma la possibilità di ottenere una pronuncia di addebito è tutt’altro che scontata.

Perché il giudice possa addebitare la separazione a carico del coniuge infedele è necessario dimostrare che il tradimento sia stato la causa della crisi matrimoniale e non il suo effetto. Se, pertanto, il tradimento interviene in un momento in cui il matrimonio è già in crisi non c’è motivo per addebitare la separazione al coniuge fedifrago.

La vicenda giudiziaria presa in esame dalla Corte vede come protagonista una coppia con quattro figli di cui due ancora minorenni.
In primo grado il Tribunale di Nuoro aveva respinto le reciproche richieste di addebito della separazione.
Il giudice aveva anche disposto l’affidamento delle minori alla madre assegnando alla donna la casa coniugale nonostante quest’ultima vivesse già da tempo altrove con un altro uomo.
La vicenda era piuttosto complessa perché oltretutto la casa coniugale era stata data in locazione dalla donna ad una società.

Il giudice aveva disposto a carico del marito l’obbligo di versare un mantenimento di € 5000 mensili per la moglie ed  € 700 mensili per le due figlie minorenni.

L’ex marito proponeva appello chiedendo che venisse dichiarato l’addebito della separazione alla moglie con conseguente eliminazione dell’assegno di mantenimento.

La Corte d’Appello di Cagliari, in parziale accoglimento del gravame, addebitava la separazione alla donna, revocava l’assegnazione alla stessa dell’alloggio coniugale e l’assegno per il suo mantenimento. Disponeva anche l’affido congiunto ai genitori delle due figlie minorenni, con collocazione delle medesime presso la madre.

A questo punto la donna ricorreva in Cassazione facendo rilevare che erroneamente la Corte territoriale aveva fato risalire la crisi coniugale all’anno in cui la donna aveva intrapreso una relazione extraconiugale mentre nella realtà dei fatti la crisi coniugale era già da tempo in atto ed era stata determinata dal comportamento del marito che aveva reso la convivenza insopportabile a lei e ai figli a causa di continue vessazione, intimidazioni, liti e comportamenti prepotenti e prevaricatori manifestatisi fin dai primi anni del matrimonio.

Nell’atto difensivo si faceva rilevare che questi aspetti erano stati evidenziati dal Tribunale ed avevano trovato conferma in copiosi riscontri documentali.

In merito alle disposizioni testimoniali raccolte durante il procedimento, la donna faceva notare come le stesse avevano dimostrato che il rapporto matrimoniale si era già incrinato da tempo, molto prima del tradimento.

Insomma, secondo la ricorrente i giudici della Corte d’Appello avevano ricostruito la vicenda giudiziaria in maniera sbrigativa e superficiale, dando più una valutazione di tipo moralista e non aveva operata una preventiva valutazione comparativa delle condotte e dei rispettivi comportamenti tenuti dai coniugi.

Con riferimento all’affidamento delle figlie minori si censurava la statuita riforma del regime di affidamento delle figlie, ossia l’attuata opzione per il loro affidamento congiunto in luogo di quello esclusivo a lei stabilito dal Tribunale.

La donna contestava anche la revoca dell’assegnazione della casa coniugale.

La Suprema Corte con sentenza n. 7410 del 28 marzo 2014 faceva notare che in realtà la corte territoriale aveva correttamente valutato le risultanze probatorie da cui era emerso che nei primi mesi dell’anno 2003 (ossia quando la donna aveva intrapreso la relazione extraconiugale) non era in atto una crisi coniugale, né si erano manifestati dissapori. Di conseguenza la relazione extraconiugale si era inserita in un momento di normale vita coniugale.

Entrambi i coniugi avevano ammesse che tra la fine dell’anno 2002 e l’inizio dell’anno 2003 avevano concordato una interruzione di gravidanza e non vi era prova che tale decisione fosse stata una conseguenza di un contrasto tra coniugi, mentre la gravidanza stessa denunziava la costanza di normali rapporti di coppia.

Oltretutto una teste (la cameriera al servizio della famiglia) aveva riferito di aver ricevuto l’incarico di controllare con una telecamera l’eventuale ritorno a casa del marito e di avvisare la Signora che nel frattempo si trovava assieme al compagno nella camera da letto coniugale.

Per quanto riguarda la casa coniugale costituita da una villa con piscina sita in un prestigioso complesso edilizio di Roma, la revoca dell’assegnazione era stata motivata dal fatto che secondo quanto emerso nel corso del giudizio la donna viveva in un altro lussuoso immobile in compagnie del nuovo compagno ed era rientrata per breve tempo in possesso dell’immobile ma non lo aveva occupato con i figli, per cui era evidente che non intendesse destinare il bene ad abitazione familiare, ma unicamente da ricavare da esso un reddito.

Fonte:
Cassazione: Perché ci sia addebito per infedeltà del coniuge va stabilito quando il tradimento si inserisce nel mènage matrimoniale.

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